Attualità e Notizie

Se l’innamoramento diventa la tomba del matrimonio
inserito il 18.08.2010

Conversando con due sposi ed un sacerdote giunti a 50 e rispettivamente a 25 anni di vocazione.

Lui: Cosa significano 50 anni di matrimonio? Una vita. Facendo conto che sono stati preceduti da altri dieci di conoscenza e che abbiamo 77 anni: fa una vita intera.
Lei: Siamo qui per ringraziare la Madonna. Io dico che rifarei tutto.

Lui è Gian Mario Pagani (già consigliere nazionale) e lei sua moglie Mirella, di Balerna: 50 anni tondi tondi di sacramento. È tradizione durante il pellegrinaggio diocesano, che durante la Messa di apertura si ricordino gli anniversari più significativi sia di coppie sposate sia di sacerdoti e religiosi. Questa volta erano una trentina di coppie che festeggiavano i 30, i 35, i 40, i 45, i 50 e persino i 55 e i 60 anni di matrimonio; due religiose i 25 anni di professione e un sacerdote i 25 di ordinazione. Con don Ernesto Barlassina, parroco di Gordola e con i signori Pagani intrecciamo una conversazione sul senso delle rispettive vocazioni.

Lui: La ricetta di questa lunga storia è semplice, per me: avere e coltivare il piacere di stare assieme, sempre, in tutto.Ho ereditato questo criterio di base dai miei nonni e dai miei genitori e suoceri (e credo di scorgerlo anche nei miei figli). Non basta sapere che "si deve" stare assieme (questo c’è, siamo cattolici, sposandoci ci siamo assunti l’impegno di stare assieme tutta la vita). Bisogna essere convinti che è bello stare assieme e camminare assieme.

È una bella formula, ma oggi quasi un matrimonio su due va a gambe all’aria anche se è stato celebrato in chiesa. Perché? Non è che si pensa di poter costruire tutto sull’innamoramento, senza capire che dovrà subire dei cambiamenti, e quando la fase iniziale sfuma subito è il panico?

Il don: C’è una grande fragilità psicologica e nella concezione dello stare assieme per sempre. E così al primo affievolirsi dell’innamoramento viene a mancare la volontà di amare. È l’amore ridotto a puro sentimento: io amo una persona finché "sento" qualcosa, manca l’idea di una fedeltà.

Lui: È proprio così, non si capisce che l’innamoramento passa, o comunque diventa qualcosa d’altro, diventa apprezzamento dell’altro, poi condivisione della responsabilità della costruzione della famiglia, responsabilità anche verso la società. Uno deve capire che gli ardori dei 17 anni devono essere sostituiti da qualcosa di più…quel piacere di stare assieme…Oggi l’affetto è diventato più maturo, più importante. E se me lo chiedessero io direi che non tornei mai indietro.

Il don: Il piacere di stare assieme nell’ottica di un progetto. Un progetto che è per il bene della coppia stessa e della famiglia tutta.

Lei: Anch’io, se devo dire cosa è rimasto dopo 60 anni di quell’innamoramento….beh, c’è qualcosa di molto più profondo. Aggiungo che c’è stato un periodo in cui ho sofferto parecchio: quando mio marito era a Berna per la politica, era spesso lontano da casa e lì ho sentito molto la sua mancanza. Ho sempre avuto il bisogno di stare con lui…

Lui: …ed è anche per questo che ho smesso di fare politica! Me l’ha fatto capire senza volerlo: un giorno, mentre stavo per partire per Berna e prendevo la valigia lei si mette a piangere. "Cos’hai, non stai bene?" "No, ma sono 30 anni che ti conosco e sono 30 anni che hai in mano la valigia". E allora ho capito che bisognava decidere qualcosa d’altro.

Il perdono come entra? Si diventa col tempo più capaci di perdonare? È qualcosa che si impara dalla fede? Perché, col tempo, si sperimenta una tale costanza e magnanimità di Dio nel perdonarci…

Lui: Sì, è così. La fede mi ha insegnato che il perdono va esercitato, ma davvero, non una volta tanto, ma è una cosa quotidiana, ogni giorno direi che c’è da perdonarsi reciprocamente, magari piccole cose…poi a un certo punto tutto gioca…ci vuole anche fortuna…

Il don: …una fortuna che forse è la grazia del sacramento…

Lei: I battibecchi restano quotidiani, e ci vogliono (anche se io non reagisco subito, ma poi ci torno sopra a quel che non va). Ma quel che ormai sperimentiamo è che…le scaramuce durano al massmo dieci minuti.

Lui: E il prete, che non ha nessuno con cui …prendersela? Com’è stata in questi 15 anni?
Il don: Ma 25 anni vuol dire che sono appena uscito dalla fanciullezza sacerdotale. Entro adesso nella maturità.

Ma c’è un problema di solitudine per il sacerdote? Oggi se ne parla molto in relazione alle polemiche sugli abusi sessuali…

Il don: Non è un problema di solitudine. È un problema di affettività, e qui ci vuole chiarezza. Su questo la personalità deve sentirsi realizzata. La solitudine, se non c’è chiarezza sulla vocazione, se uno non è in pace con se stesso, la sperimenta anche chi è sposato. Il celibe sa a cosa va incontro ma non è solo. Non soltanto perché c’è la comunità (perché il prete non è un eremita) ma soprattutto perché io non sono mai solo: il rapporto con il Signore non viene mai meno ed è totalmente appagante. Per me sono importanti anche rapporti di amicizia vera con altri sacerdoti. Forse, in certi casi di pastorale in zone periferiche la convivenza tra preti è una via che bisogna sperimentare di più. Ma non sarà mai "la" soluzione di tutti i problemi.

(articolo tratto dal GdP del 17.08.2010)



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